Sono passati sei mesi. Mezzo anno da quando papà non c’è più. Non posso dire che tutto questo tempo sia passato in fretta, né che sia stato facile, ma è comunque passato. E, quasi per uno scherzo del destino, i sei mesi cadono proprio alla vigilia della festa del papà.
Ho pensato tanto in questi sei mesi, ovvio. A papà, a come sono andate le cose, a quello che è successo. Tante volte ho anche scacciato i pensieri, cercando di rimuoverli, di continuare il tran tran di ogni giorno nel modo più “normale” possibile. E adesso, pensando alla festa del papà, mi viene lo stimolo di esorcizzare le cose, di buttar fuori frammenti, ricordi, sensazioni di quei giorni che mi porto ancora dentro e che penso non mi abbandoneranno mai.
Il giorno in cui mi è arrivata LA telefonata (“ la seconda”) era il 15 settembre 2008, il giorno prima del mio compleanno. Ero in ufficio, seduto come sempre davanti al computer. Suona il cellulare, è la suoneria di mamma. Rispondo di scatto, e la sento subito piangere. Mi prende come una botta allo stomaco, alzo gli occhi dallo schermo, guardando fisso davanti a me un punto nel vuoto mentre mamma mi dice, fra i singhiozzi, che papà ha avuto una crisi e che “ci sono delle decisioni da prendere”. Non dimenticherò mai quella frase. Non guardo nulla ma vedo Diana, che è seduta di fronte a me, che mi guarda, e intuisco che la mia espressione sta già rivelando il contenuto della telefonata. E anche questa è un’immagine che mi è rimasta dentro, nitidissima come se la guardassi dall’esterno: io al telefono e Diana che mi guarda a bocca aperta. Solo mesi dopo le ho chiesto se si ricordava che faccia avevo in quel momento, e non ricordo neanche cosa mi aveva risposto, anche se lo immagino.
Andando a ritroso, ripenso spesso ai giorni trascorsi nel reparto di terapia intensiva. È un posto pazzesco, dove vivi veramente immerso nel dolore, e devi avere due spalle così per lavorarci e non lasciarti sommergere. Parlando con un’infermiera, gentilissima come tutti lì dentro, glielo avevo anche detto; e lei aveva risposto che sì, lavorare lì è molto stimolante dal punto di vista professionale, ma certo non semplice dal punto di vista psicologico. Se invece non ci lavori, in un reparto del genere ci vai solo per un motivo, ed è per forza legato al dolore.
E la condivisione continua del dolore finisce con l’avvicinare le persone, le forzate lunghe attese insieme ed il vedersi tutti i giorni per condividere una speranza faceva sì che tutti ci trovassimo, in un certo modo, più forti. Tutti avevamo storie diverse, ma tutti sapevamo esattamente cosa provavano gli altri. Ricordo una famiglia che assisteva un ragazzo giovane, di nome Andrea, che aveva avuto un incidente in moto. Un giorno il ragazzo aveva avuto un miglioramento e il dottore aveva incoraggiato la famiglia a parlargli, così nel letto a fianco era tutto un “Andrea” “Andrea” “Andrea”. E mamma pensava che potesse aiutare anche papà, che così sentiva il nome del suo adorato nipotino.
Nello stesso periodo, nello stesso ospedale, è stato operato anche mio suocero, per un intervento non banale ma comunque programmato da tempo e che si è risolto tutto bene. In altre parole, un bel periodino. Una sera avevamo portato anche Andrea in ospedale a trovare il nonno, e lui aveva chiesto di vedere “dove è il nonno Sergio”. Così l’avevo accompagnato nel reparto, io e lui da soli, fuori dalla porta chiusa, e gli ho spiegato che il nonno era dietro quella porta, e che stava tanto male ma mi aveva detto di salutarlo. E lui, con la faccina seria, aveva fatto ciao con la manina al suo adorato nonno Sergio dietro la porta, e gli aveva mandato dei baci. Sono sicuro che abbiano attraversato la porta e siano arrivati a destinazione.
Il giorno della crisi, quando siamo entrati in reparto per vedere papà, sembrava che tutti sapessero già cosa stava succedendo, e non solo perché noi tutti piangevamo a dirotto. Tutti erano attorno ai letti dei propri cari, come un qualsiasi giorno di visita, e nessuno ci guardava, nemmeno quelli con cui in sala d’aspetto si parlava più spesso. Sapevo cosa provavano, sapevo che tutti ci erano vicini, ma che tutti stavano intimamente fronteggiando la paura, stavano combattendo con l’idea che quello che stava capitando a noi poteva benissimo domani, fra un mese, un anno o un minuto, capitare anche a loro. Cercavano di isolarsi, di ignorarci, ma con la coda dell’occhio vedevano quelle donne che piangevano a dirotto, e quel ragazzo in piedi a fianco del letto, incapace di piangere o di qualsiasi altra reazione, che teneva la mano di suo padre forse per l’ultima volta. E forse sapevano anche che stava pensando “non sta succedendo, non può succedere, non sta succedendo…”.
Ricordo la sera in cui papà ha avuto l’emorragia; come potrei dimenticarla, del resto? Era il 30 agosto, un caldo sabato sera. Ero a casa e stavo giocando con Andrea, ed è arrivata LA telefonata (“la prima”): mia nonna sentiva papà che si lamentava da sotto la doccia e non le rispondeva. Mia mamma era andata a messa. Quante volte ho pensato a questa coincidenza: al giorno in cui io e mia sorella, ancora piccoli, stavamo giocando sul lettone con papà e mia nonna era entrata a chiamare papà perché mio nonno si era sentito male. E ricordo nitidamente che lui era saltato fuori dal letto in un attimo e se ne era andato di corsa, strappato dal gioco con i figli e dalla sua realtà di famiglia felice dalla dura tragedia. Adesso ricordo bene la cosa, ma sul momento non so quanto io e Chiara avessimo capito che il nonno era morto.
Ed ecco che la storia si stava ripetendo: solo che stavolta ero io ad essere strappato dal gioco con mio figlio e dalla famiglia felice. Ero io ad essere trascinato a forza nella tragedia e nella realtà. Ed ero io che mi ero ritrovato spaventato e con le spalle al muro. Non so, e non saprò mai, quale fosse stata la reazione interiore di papà in quel momento, a parte il precipitarsi a casa del nonno. So che la mia è stata la paura, il non voler affrontare l’emergenza, il barricarmi dietro la felicità, dietro la scusa di non poter lasciare Andrea a casa da solo, lo sperare che non si trattasse di nulla di grave e che qualcun’altro affrontasse il problema. Per questo ho detto a mia nonna di chiamare mia sorella, per questo dopo aver riagganciato ho passato un paio di minuti a rimuginare, a lasciare che si combattessero il desiderio di scappare e quello di agire, a cercare una soluzione, subito trovata nell’agire, nell’affidare Andrea ai vicini e nel precipitarmi a casa di papà, dove sono comunque arrivato prima di mia sorella. Adesso so che comunque quel paio di minuti persi non è stato decisivo, ma non credo che mi perdonerò mai quei momenti di indecisione.
Quella sera è stato come se tutte le cose che non volevo mi capitassero avessero invece deciso di accadermi. Il momento in cui ho aperto la porta del bagno non sapendo cosa avrei trovato dentro è stato indefinibile. E dentro ho trovato papà steso sul pavimento della doccia. Aveva vomitato, si lamentava, non era completamente cosciente ma era sveglio. L’unica cosa a cui ho pensato è stata una caduta, che magari avesse battuto la testa, tanto che quando mia sorella ha chiesto se chiamare l’ambulanza l’unico motivo per cui ho detto sì è stato perché da solo non sarei riuscito a tirarlo fuori dalla doccia, visto che papà non riusciva a muoversi. E sono rimasto con lui nella doccia, a sorreggerlo mentre aspettavamo l’ambulanza, io in piedi e lui accovacciato per terra appoggiato alle mie gambe. E continuavo a fargli delle domande, per vedere se era cosciente, “ti senti le gambe?” “chi sono io?” e cose così, e lui a volte rispondeva e a volte no, e quando non rispondeva e io glielo richiedevo lui poi rispondeva arrabbiato, come faceva sempre. Non ricordo cosa ho pensato in quei momenti, ricordo distintamente che papà con le mani mi stringeva le caviglie, e mi percorreva il retro della gamba, dal tallone fino al basso polpaccio, quasi ad accarezzarmi, quasi a cercare un contatto; non so il perché di quelle carezze, so che non ci trovavo una logica e la cosa quasi mi spaventava, e so che se ci penso ancora ora mi sembra di sentire ancora quel contatto.
Non sono più entrato in quel bagno. È solo un bagno, è lo stesso dove ho fatto tante docce quando ero ragazzo, ma non voglio più entrarci. E se posso, cerco di passarci davanti solo quando c’è la porta chiusa, per non dover neanche guardarci dentro.
In ospedale ero tranquillo, intimamente convinto che si fosse trattato solo di una caduta. Quando alla fine ci hanno detto che c’era stata un’emorragia nella testa ancora non volevo comprendere la portata della cosa. Alla fine ce l’hanno fatto vedere , e lui era sveglio e cosciente, un po’ intontito ma ci ha visti e riconosciuti tutti e tre, ed era anche un po’ scocciato dal tubo della flebo che gli avevano messo. Col senno di poi, è stata l’ultima volta che ho sentito la sua voce.
Poi, era già notte, il viaggio fino all’altro ospedale, al reparto di avanguardia di neurochirurgia. Io ero ancora vestito come il pomeriggio, con la maglietta di Dan Marino ed i pantaloni corti, ancora sporco di acqua e vomito, e non ci pensavo minimamente a cambiarmi, volevo solo stare dietro all’ambulanza con papà. Che, ovviamente, ho perso già alla prima curva appena usciti dall’ospedale. Così siamo passati per casa mia, mi sono cambiato e poi ci siamo rimessi in viaggio. E quando siamo arrivati giù l’infermiera ci ha accolto con un “È già in sala operatoria”.
Come, in sala operatoria? Ma che c’entra la sala operatoria? E lì abbiamo capito cosa era successo, ed è iniziata l’angoscia, quella vera. L’attesa sulle seggioline di legno, il vederlo uscire tutto ricoperto di cannule, tubicini e macchinari, la diagnosi dei dottori e poi, a notte fonda, la seconda operazione, di riduzione dell’emorragia. Che solo a sentirla descrivere ti meravigli di dove sia arrivata la chirurgia oggi, e ti viene il bisogno di pregare. E ancora le seggioline, i tentativi inutili di dormire un po’ mentre aspetti e pensi che, al di là di quella porta, tuo papà sta rischiando di morire. E poi il dottore che arriva, e che ti dice che sì, tutto è andato bene, l’operazione è riuscita, ma il difficile comincia ora, che sarà lunga e piena di insidie, e che dobbiamo avere fede e pazienza. E, infine, il ritorno a casa controvoglia, perché vorresti stare lì con papà ma non c’è nessun posto a parte le stramaledette seggiole di legno e poi non c’è nulla, ma proprio nulla, che potresti fare per lui.
Torni a casa, guidando lentamente alle 3 della notte, con l’adrenalina che inizia a lasciare il posto alla stanchezza, cercando di non pensare all’enormità di quello che è successo, di essere ottimista perché l’operazione in fondo è riuscita, parli di come organizzare gli spostamenti in ospedale per i giorni successivi. E ancora non ti rendi conto che, nelle ultime otto ore, senza nessun preavviso, la tua vita è cambiata per sempre.
Lo scorso anno io non ho festeggiato il mio compleanno. Papà ha avuto la crisi il giorno prima, ed è morto due giorni dopo. In effetti, ho rifiutato l’idea stessa del compleanno, tanto da non voler nemmeno che mi facessero gli auguri. Ho passato la giornata a casa, da solo, disteso sul divano con la coperta fin sotto al mento, con la televisione accesa su NASN, tanto per rompere il silenzio, e sono rimasto lì tutto il giorno, a piangere tutte le lacrime che potevo avere, a cercare di sedimentare il dolore scrivendo sul blog, a pensare a tante cose e a non pensare a niente.
In molti si erano preoccupati per me perché non mi avevano visto avere le reazioni emotive che invece, per fare un esempio, ha avuto mia sorella. In effetti, sono stato il primo a stupirmi di come mi sono comportato: non avrei mai pensato che sarei stato in grado di mantenere il sangue freddo la sera in cui papà ha avuto l’attacco, né avrei pensato che vedendolo in ospedale per l’ultima volta non mi sarei messo a piangere, o che avrei affrontato il funerale con la serenità che mi sono invece ritrovato. Ma le lacrime sono arrivate, non solo il giorno del mio compleanno, e continuano ad arrivare anche adesso in tante altre occasioni, quando mi viene in mente qualcosa, o quando vedo una sua foto o vado in cimitero, o mentre scrivo queste cose. E probabilmente arriveranno anche domani, quando penserò che da quest’anno non ho nessuno a cui comperare un regalo.
Ma gli auguri te li farò sempre. Tanti auguri, papà.
Caro Mauro,
ti ho letto tutto d’un fiato ed è stato impossibile non commuoversi.
Ho ritrovato nel tuo ricordo sentimenti che non ho ancora dimenticato anche se sono passati vent’anni: la paura, quel desiderare che “se ne occupi qualcun altro” e il successivo agire quasi esagerato e forsennato, il correre lungo strade che ancora adesso faccio malvolentieri, le attese infinite, la speranza, le preghiere…quasi mi vergogno a dire che noi siamo stati fortunati…
Mauro, ti sento fratello e ti abbraccio forte, davvero
…..
La tua mano sulla spalla è più di una mano sulla spalla, perché quelle dita strette che avvicinano tuo padre a te, dicono molto, così come la mano di tuo padre sul tuo cuore parla più di mille parole….