Life is short 4

Un venerdì sera come tanti. O meglio, non proprio come tanti per chi ha un bimbo piccolo e si è disabituato ad uscire senza di lui, ma si è capito il concetto. Una pizza fuori (margherita ed acqua minerale, con l’occhio attento alla gastrite) con una persona speciale con cui riallacciare i rapporti dopo tanto, troppo tempo.

Quando eravamo giovani (ommioddio che attacco…) io e Paola eravamo qualcosa di molto vicino a “cugini prediletti”; secondi cugini ma coetanei, le visite reciproche da parenti erano sempre bene accette, perchè sapevamo che dall’altra parte ‘c’era Paola’ oppure ‘c’era Mauro’. Insomma, si andava d’accordo, ma d’accordo sul serio. E poi all’improvviso, bum!: venticinque anni senza vedersi.

Ma sul serio, pare una minchiata, ma è andata davvero così! Un mare di tempo – fra l’altro fra i nostri circa 20 e circa 45 anni, mica un periodo qualsiasi – passato placidamente un giorno dopo l’altro, senza nessun motivo serio o meno serio, senza una ragione plausibile che possa impedire a due cugini che vivono a 20 (venti) chilometri di distanza l’uno dall’altro di vedersi o sentirsi una volta ogni tanto. Roba da matti…

Poi, come spesso va nella vita, sono i lutti a riavvicinarti. Finisce che ti vedi ad un funerale, e ti riproponi di rivederti, poi a un altro e ti fai la stessa promessa, poi a un terzo… e insomma – per farla breve perchè di funerali in fila ce ne sono già troppi – ce l’abbiamo fatta e siamo andati a farci questa pizza. Serata piacevolissima, a parlare tranquillamente di tutto con la naturalezza di due che si vedono ogni mese, o di due che non si vedono da vent’anni ma è come non avessero mai smesso di vedersi. Tutto perfetto, fino al momento di andarsene.

Esco, saluto Paola, giro l’angolo e subito mi assale un’ondata di freddo intenso fin quasi da batter i denti. Mi fa male il petto, mi fa male il collo e soprattutto ho freddo, davvero freddo. In un modo o nell’altro mi faccio quei venti chilometri in macchina fino a casa e, arrivato, misuro la febbre. 39. Mi affido ad una miracolosa Tachipirina e vado a dormire, ma continuo a battere i denti dal freddo. Dopo un po’, inizia il vomito, e fino alla mattina è tutta una meravigliosa alternanza di momenti in ginocchio davanti alla tazza del cesso e momenti disteso a letto battendo i denti.

Il giorno dopo la febbre non scende. Vabbè, il solito virus rompiballe, in questo periodo è pieno, Tachipirina ad intervalli regolari, bere tanto, acqua tè, stai coperto, stai tranquillo che sono tre giorni di febbre e poi se ne va. Il quarto giorno, però, non se ne è andato nulla, tranne i chili sulla bilancia perchè è martedì e io in pratica non mangio nulla da venerdì a pranzo. La febbre imperversa secondo i ritmi dettati dalla Tachipirina: è una continua montagna russa con rapide picchiate verso il 37 e lente ma inesorabili risalite verso il 39. Sinceramente io inizio ad essere provato, e pazienza se sono a casa dal lavoro con Sky a mia completa disposizione, tanto non ho voglia di fare nulla, vorrei solo che mi passasse in fretta la febbre e tutti ‘sti maledetti dolorini che gironzolano per le ossa e Dio solo sa dove altro, e sei lì sul divano che aspetti che l’ennesima compressa faccia effetto quando improvvisa… arriva.

La fitta al petto.

Oddio! E che è questa? No, non può essere… Cazzo che male. Fittà è fitta, centrale… beh è diffusa ma sì, fa male qui davanti. Il braccio, mi fa male il braccio? (…in certi momenti le conoscenze mediche che hai arrivano un po’ alla rinfusa, e bisogna fare di necessità virtù). No, non mi sembra, spe’ che vediamo se passa… Dopo un po’ non è passata poi tanto, raduni le idee e chiami il dottore. Che non risponde. E lì piombo sulla classica seconda scelta (dai che è facile…): la mamma. Che non solo risponde, ma dice che arriva subito. Mi trascino su in camera e, arrivato di sopra, ricordo che la porta è chiusa e mia madre di sicuro non si porta le chiavi. Riscendo giù ad aprire la porta e, raccogliendo le ultime forze, ritorno di sopra. A metà della scala ascendente parte il giramento di testa.

Ho il tempo di pensare “Occazzo”. E sinceramente non ricordo a cosa altro ho pensato in quei pochi attimi fra il primo “occazzo” ed il momento in cui la testa ha smesso di girare, ma posso dire con certezza che nessuno di quei pensieri era particolamente allegro. Però alla fine l’allarme è rientrato, il letto è raggiunto e la madre apprensiva è comparsa a casa mia a spandere ansia a piene mani come solo una mamma sa fare (credo sia scritto nel contratto che devono fare così…).

Disinnescata la segreteria telefonica riesco a raggiungere il dottore, che dice che se c’è un dolore al petto la prima cosa da fare, a prescindere, è andare al pronto soccorso per un elettrocardiogramma; poi tutto il resto lo vediamo dopo. Il ragionamento non fa una piega, quindi si afferra il kit di sopravvivenza (telefono e iPod) e si va. All’accettazione del Pronto Soccorso non c’è neanche tutta ‘sta gente, per fortuna. Barcollando un po’ e con la faccia da straccio (sempre i soliti 4 giorni senza cibo…) mi avvicino all’addetto e ho con lui il seguente dialogo:
“Buongiorno, io ho la febbre a 39 da 4 giorni”
“Sì, si accomodi un attimo”
“Calma… stamattina ho avuto una fitta al petto e il mio med…”
“Sì, prego venga, si distenda lì”. Mi fa entrare e distendere subito su un letto, sul quale vengo sospinto oltre il portone della sala emergenze.

La macchina si mette in moto. Prelievi, cosa si sente cosa non si sente, un bell’ago in vena nel caso servisse mai una flebo, elettrocardiogramma (tutto a posto), adesso aspettiamo il risultato delle analisi e poi la mandiamo a fare i raggi, eccetera eccetera. Tutto nella sala emergenze di un pronto soccorso, che non sarà ER ma il suo bel movimento ce l’ha. Dal ragazzino con l’asma dallo sguardo smarrito che ho cercato di consolare al signore diabetico che mi ha fatto prendere uno spavento non indifferente: entrato sulle sue gambe dieci minuti dopo di me, non so per quale motivo, ad un certo punto aveva tre infermieri e un dottore addosso che cercavano di rianimarlo (“RIESCE A SENTIRMI???”) e giuro che, anche dal lettino accanto e con volume dell’iPod abbastanza alto, quelli non sono sembrati dei bei momenti.

Comunque, la diagnosi è stata semplice: polmonite. E, cedendo alle insistenze della madre ansiosa, ho acconsentito al ricovero per curarla meglio (“In questo momento posto ne ho, quindi se vuole ricoverarsi non è un problema”, mi giro verso mamma e vedo un vigoroso movimento della testa dal basso verso l’alto e viceversa: servono altri indizi?). Quattro giorni in ospedale – fino alla dimissione di sabato scorso – in cui sono stato pompato di flebo di antibiotici e minestrine, acqua e riposo, Settimana Enigmistica e Google Reader (grande acquisto l’N97…), giornali e un libro (“Alta fedeltà” di Nick Hornby, un lacuna che dovevo colmare da parecchio tempo), e vissuti in un mondo che non conoscevo più, se è vero che l’unico mio ricovero era stato la canonica appendicite a 8-10 anni o giù di lì.

Un mondo fatto di tempi dilatati, di lunghe attese e di tanti pensieri, di sveglie brusche e difficili addormentamenti, di “amicizie” che se sono fugaci per la loro breve durata sono però intense, perchè basate sulla condivisione di un dolore, dello stato di privazione della salute e dell’incertezza per quello che sarà. Un mondo in cui noi andiamo e veniamo ma infermieri e dottori rimangono, e devo ammettere che – perlomeno nello spicchio di sanità pubblica che ho frequentato io – sia gli uni che gli altri sono sempre stati professionali ma anche gentili e cortesi, e sempre pronti ad offrire una sponda per una chiacchiera ed un sorriso per sdrammatizzare. Un mondo in cui la quando scende la notte – ed arriva presto – è fatta di lamenti in sottofondo, di russate, di sveglie e di dormiveglia, di luce e di buio, di sogni brevi e di riposi pesanti.

Le mie notti trascorrevano al suono dell’iPod, con cui cercavo di schermare il cervello da tutte le distrazioni per farlo addormentare, il più delle volte senza successo. Non saprei dire quanti sogni reali, quanti sogni in dormiveglia e quanti pensieri ho fatto in queste notti, con il sottofondo di Vasco, Biagio, Tiziano Ferro (sì, mi sentivo in un periodo “italiano”); ogni tanto, immancabilmente, dopo un pensiero mi dicevo “questa sarebbe da scrivere sul blog”, e subito un altro arrivava a spazzarlo via. E poi un altro, e poi un altro…

Il giorno più agitato è stato l’ultimo, in cui contavo i secondi che mi separavano dalla dimissione, senza ancora avere un’idea certa del quando mi avrebbero mandato a casa: insomma, il classico leone in gabbia (Infermiera: “Hai la pressione un po’ alta, sei agitato?” Io: “Nooooo…”). Fino al momento più bello, quando alla fine sono uscito fuori, respirando l’aria esterna e riassaporando la vita.

Per poi tornare a chiudermi subito in casa: ci sono ancora 12 giorni di antibiotici, gastroprotettori, vitamine e fermenti lattici davanti…

4 thoughts on “Life is short

  1. Reply Serenissima Mag 4,2010 07:45

    Madonna Santa! Sarà per l’esperienza avuta in famiglia, ma leggendoti avevo temuto il peggio e mi hai spaventata non poco… Non che una polmonite sia una passeggiata, ma sempre meglio di un attacco di cuore!
    Spero che tu sia nella fase in cui si comincia a star meglio e a godersi il “potere” di far esaudire i tuoi desideri a chi ti sta vicino nel tempo record che passa tra il pensarlo e il vederlo subito realizzato.
    Caro Mauro, ti auguro una vagonata di buona salute!

  2. Reply Carlo Marzari Mag 5,2010 10:33

    Mauro…….leggendo il tuo racconto mi sembrava di vivere in un incubo virtuale……avevo paura…..mi sono fermato a metà….poi con molto coraggio ho continuato a leggere piano piano e attentamente …..mi aspettavo il peggio…ma in fondo ho tirato un sospiro di sollievo….sei a casa e stai guarendo….è questo l’importante …..Tanta salute da Carlo . Ciao

  3. Reply Giori Mag 6,2010 18:19

    Ma non è che ti sei inventato tutto per farci saltare le coronarie aspettando di sapere, riga dopo riga, che fine stavi per fare?
    Purtroppo vedo che abbiamo letto tutti con un pò di apprensione la tua vicenda, e questo significa che a turno siamo stati un pò toccati da questa meravigliosa vita che ogni tanto ci fa lo sgambetto.
    L’importante è tornare in careggiata e approfittare per farsi fare le classiche coccole che solo in questi momenti sgorgano a fiumi dalle persone che ci sono più vicine.APPROFITTANE!!!!Ciao

  4. Reply Mauro Mag 10,2010 08:54

    Sissio, che mi combini?
    Statti riguardato, riposati anche “dentro”, e riprenditi di corsa. Un consiglio per una lettura può starci: “L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafon. Ti viene difficile smettere 😉
    Un abbraccio forte
    M

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